ALESSANDRO DI AFRODISIA (circa l’intelletto possibile e le sostanze separate) (2, 62; 3, 42.44)

(II, 62) Contro l’opinione di Alessandro (d’Afrodisia) circa l’intelletto possibile

Secondo questo Autore l’intelletto possibile deriverebbe da una certa combinazione degli elementi contenuti nel corpo umano. Ora, l’intellezione è un’attività alla quale è impossibile che partecipi un organo corporeo. Quindi la tesi suddetta è inaccettabile.

(III, 42) In questa vita non possiamo intendere le sostanze separate nel modo proposto da Alessandro [di Afrodisia]

Se infatti l’intelletto agente è un’unica sostanza separata, e divenisse la forma di un uomo determinato [come vuole Alessandro], in modo che costui potesse intendere con esso, per lo stesso motivo potrebbe diventare la forma di un altro uomo, che se ne servirebbe allo stesso modo. Ne seguirebbe quindi che due uomini intenderebbero simultaneamente servendosi dell’intelletto agente in qualità di forma propria […]. Così dunque due soggetti intelligenti avrebbero l’identica intellezione. Il che è impossibile. E non è l’unica affermazione irragionevole.

(III, 44) L’ultima felicità umana non si trova nella conoscenza delle sostanze separate supposta da tali opinioni           

[n. 1]. Quanto è indirizzato a un fine che non può conseguire è vano. Ora, siccome il fine dell’uomo è la felicità verso la quale tende il suo desiderio naturale, non si può riporre la felicità umana in qualcosa che l’uomo non può raggiungere: altrimenti ne verrebbe che l’uomo è un essere vano e il suo desiderio naturale sarebbe vano, il che è impossibile. D’altra parte, che non sia possibile per l’uomo conoscere le sostanze separate secondo le opinioni suddette, è manifesto in base a quanto sin qui detto. Perciò vale il titolo. [n. 3]. Posto che la saldatura suddetta dell’intelletto agente con l’uomo fosse possibile come essi ce la descrivono, è evidente che tale perfezione interessa pochissimi uomini […]. Ora, la felicità è un bene universale e comune che i più possono raggiungere se non sono menomati, come dice Aristotele [1 Et., c. 9, n. 4].

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