(III, 51) In che modo si può vedere Dio per essenza
Dato che è impossibile che un desiderio naturale sia vano […], è necessario affermare la possibilità di vedere intellettualmente l’essenza di Dio, sia da parte delle sostanze separate, sia da parte delle nostre anime. Da quanto abbiamo detto appare già a sufficienza quale debba essere il modo di questa visione. Infatti sopra [c. 49] abbiamo spiegato che la sostanza divina non può essere vista dall’intelletto mediante una specie creata. Perciò, posto che si veda l’essenza di Dio, bisogna che l’intelletto la veda mediante la stessa essenza divina: cosicché in questa visione l’essenza divina è insieme l’oggetto visto e il mezzo con cui è visto [cioè la specie intelligibile]. Ora, soltanto Dio, pur essendo in sé sussistente, può esercitare rispetto all’intelletto creato la funzione di specie intelligibile: cosa impossibile per qualsiasi sostanza separata. Nella Sacra Scrittura ci viene promessa questa visione immediata di Dio [1 Cor 13,12]: «Ora noi vediamo come in uno specchio e per enigma, ma allora vedremo faccia a faccia» […]. Con questa visione dunque otteniamo la massima somiglianza con Dio, e partecipiamo alla sua beatitudine: poiché Dio stesso vede la propria sostanza mediante la propria essenza, e ciò costituisce la sua beatitudine. Da cui le parole di san Giovanni [1 Gv 3,2]: «Quando egli si manifesterà saremo simili a lui, poiché lo vedremo così come egli è». E il Signore afferma [Lc 22, 29 s]: «Io preparo per voi un regno, come il Padre mio ha preparato per me una mensa, affinché mangiate e beviate alla mia mensa, nel mio regno». Tali espressioni non possono intendersi di un cibo o di una bevanda corporale, ma di quello che si prende alla mensa della Sapienza, secondo il suo invito: «Mangiate il mio pane, e bevete il vino che ho preparato per voi» [Pr 9,5]. Perciò mangiano e bevono alla mensa di Dio coloro che godono della stessa felicità per cui Dio è felice, vedendolo nel modo in cui egli vede se stesso.
(III, 52) Nessuna sostanza creata può giungere a vedere Dio per essenza con la propria facoltà naturale
Infatti vedere Dio per essenza è proprio della natura divina […], per cui nessuna sostanza intellettiva può farlo se non per l’intervento di Dio stesso. Perché l’intelletto creato veda l’essenza di Dio bisogna che l’essenza divina si unisca all’intelletto quale forma intelligibile, come abbiamo visto sopra [c. prec.]. Quindi non è possibile che un intelletto creato raggiunga questa visione senza un’azione da parte di Dio. Di qui le parole di san Paolo [Rm 6,23]: «Grazia di Dio è la vita eterna». Infatti abbiamo visto che la beatitudine dell’uomo sta nella visione di Dio, che viene denominata vita eterna: e ad essa non possiamo giungere se non per la grazia di Dio, poiché tale visione supera tutte le capacità della creatura, e non è possibile raggiungerla senza un dono di Dio. Ora, quanto viene concesso così alle creature viene denominato grazia di Dio. E il Signore ha detto [Gv 14,21]: «Sarò io a manifestare a lui me stesso».
(III, 53) L’intelletto creato ha bisogno dell’illuminazione divina per vedere Dio per essenza
È impossibile che l’essenza divina diventi la forma intelligibile di un intelletto creato se non perché tale intelletto partecipa a una somiglianza divina. Quindi tale partecipazione è necessaria per vedere la sostanza divina […]. La disposizione con la quale l’intelletto creato viene elevato all’intellezione dell’essenza divina giustamente viene detta luce della gloria (lumen gloriae), in quanto dà all’intelletto la capacità di intendere attualmente. È questa la luce di cui il Salmista dice: «Nella tua luce vedremo la luce» (35, 10). E nell’Apocalisse si legge (22,3) che la città dei beati non ha bisogno «né del sole né della luna, poiché la luce di Dio la illumina». E in Is 60, 19: «Non avrai più il sole per la luce del giorno, né ti illuminerà il chiarore della luna, ma la tua luce sempiterna sarà il Signore, e il tuo Dio la tua gloria». E poiché in Dio c’è identità tra essere e intendere, poiché egli è la causa dell’atto intellettivo di tutte le intelligenze, giustamente viene denominato luce: Gv 1,9 «Era lui la luce vera che illumina tutti gli uomini che vengono in questo mondo»; 1 Gv 1,5 «Dio è luce»; Sal 103, 2: «Cinto di luce come di un manto». – Per questo nella Sacra Scrittura sia a Dio che agli angeli vengono attribuite figure di fuoco, data appunto la luminosità del fuoco.
(III, 54) Soluzione delle ragioni che sembrano dimostrare che Dio non può essere visto nella sua essenza
[n. 1]. L’essenza divina sorpassa ogni capacità dell’intelletto creato molto più di quanto l’intelletto non sorpassi la capacità del senso. Perciò l’intervento di nessuna luce sarà in grado di elevare l’intelletto creato a vedere l’assenza di Dio. – [n. 1]. A questa ragione si può rispondere così: L’essenza divina non è superiore alla capacità dell’intelletto creato così da essergli del tutto estranea, come il suono è estraneo alla vista, o come una sostanza immateriale è estranea ai sensi, poiché l’essenza divina è il primo degli intelligibili, e il principio di ogni conoscenza intellettiva; ma è oltre la capacità dell’intelletto creato in quanto è superiore alla sua virtù, come i dati sensibili più forti sono estranei alla capacità del senso rispettivo. Per cui il Filosofo [2 Met., c. 1, n. 2] afferma che «il nostro intelletto sta alle cose più evidenti come l’occhio del pipistrello sta alla luce del sole». – [n. 4]. Risposta alla difficoltà. La visione dell’essenza divina supera qualsiasi capacità naturale [cf. c. 52]. Quindi la luce da cui l’intelletto creato è predisposto alla visione della sostanza divina deve essere soprannaturale. – E così via.
(III, 55) L’intelletto creato non può comprendere totalmente l’essenza divina
[n. 1]. La luce di cui abbiamo parlato [c. prec.] è ben lontana per efficacia dallo splendore dell’intelletto divino. Quindi è impossibile che con essa la divina essenza venga vista così perfettamente come la vede l’intelletto divino, il che significa che non la può comprendere totalmente (comprehendere). [n. 4]. Nessun oggetto compreso supera i limiti della facoltà che lo comprende. Perciò se l’intelletto creato comprendesse l’essenza divina, questa non supererebbe i limiti di un intelletto creato, il che è assurdo. Quindi …
(III, 56) Nessun intelletto creato, vedendo Dio, vede tutte le cose che in lui si possono vedere
Allora soltanto è necessario che conoscendo una causa si conoscano tutti gli effetti conoscibili attraverso di essa, quando di questa causa si ha la comprensione […]. Perciò, dato che l’intelletto creato non può conoscere l’essenza divina in modo da comprenderla [c. prec.], non ne segue che veda tutte le cose che attraverso di essa si possono conoscere. Più un intelletto è alto, tanto più numerosi sono gli oggetti che conosce […]. Ora, l’intelletto divino è superiore a tutti gli intelletti creati, e quindi conosce più cose che un intelletto creato. D’altra parte egli non conosce nulla se non in quanto vede la propria essenza [I, c. 49]. Perciò mediante l’essenza divina sono conoscibili molte più cose di quante ne possa vedere un intelletto creato.
(III, 57) Ogni intelligenza, di qualsiasi grado, può essere partecipe della visione di Dio
Ciò che viene compiuto grazie a una virtù soprannaturale non può essere impedito dalle diversità della natura, poiché la virtù divina è infinita […]. Perciò la diversità di grado della natura intellettiva non impedisce che il grado più infimo di tale natura possa essere condotto a quella visione dalla luce suddetta. – Di conseguenza poco importa che l’intelletto elevato alla visione di Dio da tale luce sia supremo, infimo o intermedio.
(III, 58) Un’intelligenza può vedere Dio più perfettamente di un’altra
La luce di cui si è parlato [c. 53] può avere vari gradi di partecipazione, così che uno ne venga illuminato più di un altro, anche se entrambi vedono l’essenza divina […]. Per questo il Signore ha affermato [Gv 14, 2]: «Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore». E così viene pure escluso l’errore di quanti affermano che i premi [dei giusti] sono uguali.
(III, 59) In che senso coloro che vedono l’essenza divina vedono tutte le cose
L’intelletto ha l’appetito naturale di conoscere i generi, le specie e le virtù di tutte le cose, e tutto l’ordine dell’universo, come è dimostrato dalla ricerca dell’uomo circa queste cose. Dunque ciascuno di coloro che vedono l’essenza divina conosce tutte le cose suddette. Perciò a Mosè che chiedeva di vedere l’essenza divina, il Signore risponde [Es 33,19]: «Io ti mostrerò ogni bene». E san Gregorio scrive [Dial. 4, c. 23]: «Che cosa possono ignorare quanti conoscono colui che sa tutto?». L’espressione «tutte le cose» non esclude però che certe cose non le sappiamo e/o non le sapremo. Ciò appare in più modi. Primo, rispetto alle cose che Dio può fare, ma che non ha fatte e mai farà. Secondo, rispetto alle ragioni delle stesse cose create, poiché l’intelletto non può conoscerle tutte senza comprendere totalmente la bontà divina. Terzo, rispetto alle cose che dipendono dalla sola volontà di Dio, quali la predestinazione, l’elezione, la giustificazione e le altre cose relative alla santificazione delle creature.
(III, 60) Coloro che vedono Dio vedono simultaneamente in lui tutte le cose
Quando raggiunge il suo ultimo fine, ogni cosa si acquieta. Ora, l’ultimo fine dell’intelletto è la visione dell’essenza divina, come si è visto [c. 50]. Dunque l’intelletto che vede l’essenza divina non passa da un intelligibile all’altro. Perciò le cose che conosce mediante questa visione le considera tutte attualmente. Le specie di qualche genere sono infinite, p. es. quelle dei numeri e delle figure geometriche. Quindi l’intelletto nell’essenza divina vede cose infinite. Ora, non potrebbe percorrerle, poiché l’infinito non è attraversabile (infinitum non est pertransire). Quindi deve vederle tutte simultaneamente.
(III, 61) La visione di Dio rende partecipi della vita eterna
L’eternità differisce dal tempo perché esiste tutta simultaneamente. Ora, abbiamo visto che nella visione di Dio non c’è successione [a. prec.]: perciò in essa si compie una certa partecipazione dell’eternità. D’altra parte questa visione è una forma di vita, poiché l’attività intellettiva è qualcosa di vitale [cf. Eth., 9, c. 9, n. 7]. Dunque con tale visione l’intelletto creato diviene partecipe della vita eterna. Gli atti sono specificati dagli oggetti. Ora, l’oggetto di questa visione è l’essenza divina in se stessa, non in qualche sua immagine creata, come si è visto sopra [c. 50]. D’altra parte l’essere dell’essenza divina è nell’eternità, o piuttosto è la stessa eternità. Quindi anche la suddetta visione è una partecipazione dell’eternità. Di qui le parole del Signore [Gv 17,3]: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, unico vero Dio».
(III, 62) Coloro che vedono Dio, lo vedranno in perpetuo
La visione di Dio è sommamente amata da coloro che la possiedono. Quindi questi non potrebbero non rattristarsi se sapessero di doverla perdere. Ma se così fosse, lo saprebbero: quindi non sarebbero beati. Se due cose prima unite si separano, devono questa separazione a un mutamento di almeno una di esse […]. Ora, un intelletto creato vede Dio per il fatto che in qualche modo si unisce a lui [cf. c. 51]. Se quindi tale unione cessasse, bisognerebbe che ciò avvenisse per una mutazione o della realtà divina, o dell’intelletto che la contempla. Ma entrambe le cose sono impossibili: poiché la realtà divina è immutabile [cf. I, c. 13], e anche la sostanza intellettiva è elevata al di sopra di ogni mutazione quando vede l’essenza di Dio. È quindi impossibile che uno decada da quella felicità con la quale vede l’essenza di Dio. Di qui le parole del Salmista (83,5): «Beati coloro che abitano nella tua casa, o Signore: ti loderanno nei secoli dei secoli». E ancora (124,1): «Non vacillerà in eterno chi abita in Gerusalemme». Is 3,20: «I tuoi occhi vedranno Gerusalemme, città dell’opulenza, padiglione che non potrà mai essere rimosso, i cui pioli non saranno divelti in eterno, le cui corde non saranno mai spezzate: poiché ivi soltanto risiede nella sua magnificenza il Signore Dio nostro». Ap 3,12: «Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio, e non uscirà più fuori».
(III, 63) L’ultima felicità appaga ogni desiderio umano
La prova di ciò risulta scendendo ai particolari. Infatti: Il desiderio di conoscere la verità sarà soddisfatto con certezza quando, mediante la visione della Prima Verità, l’uomo verrà a conoscere tutto ciò che l’intelletto desidera sapere [cf. c. 59]. Il desiderio di vivere virtuosamente […] si attiverà in pieno perché la ragione avrà allora il massimo vigore, essendo illuminata dalla luce di Dio, e non potendo più scostarsi dalla rettitudine. E così per altri desideri. A tale ultima e perfetta felicità nulla assomiglia di più, in questa vita, che la vita contemplativa. Perciò i filosofi che non poterono avere una piena conoscenza di quell’ultima felicità, posero l’ultima felicità dell’uomo nella contemplazione che è possibile in questa vita. E per questo nella Sacra Scrittura la vita contemplativa è quella più elogiata, avendo detto il Signore [Lc 10,42]: «Maria ha scelto la parte migliore», cioè la contemplazione della verità, «che non le sarà tolta». Infatti la contemplazione della verità inizia in questa vita e viene perfezionata in quella futura. La vita attiva e quella civile, invece, non superano i confini della vita presente.