(III, 41) In questa vita l’uomo non può conoscere le sostanze separate con lo studio e le scienze speculative
Una sostanza separata è più distante dalla realtà sensibile di quanto non possa esserlo una realtà sensibile da un’altra. Ora, un cieco nato che conosce la quiddità, cioè l’essenza, del suono, non può conoscere la quiddità del colore. Quindi molto meno, per il fatto che uno conosce la quiddità di una sostanza sensibile, potrà conoscere la quiddità di una sostanza separata. Se è vero che mediante l’intellezione delle nature o quiddità degli esseri sensibili arriviamo a conoscere le sostanze separate, bisogna che la loro conoscenza avvenga mediante qualcuna delle scienze speculative. Ora, ciò non risulta, poiché non esiste nessuna scienza speculativa che insegni a conoscere la quiddità di qualche sostanza separata, ma solo il fatto che esistono.
(III, 42) In questa vita non possiamo intendere le sostanze separate nel modo proposto da Alessandro [di Afrodisia]
Se infatti l’intelletto agente è un’unica sostanza separata, e divenisse la forma di un uomo determinato [come vuole Alessandro], in modo che costui potesse intendere con esso, per lo stesso motivo potrebbe diventare la forma di un altro uomo, che se ne servirebbe allo stesso modo. Ne seguirebbe quindi che due uomini intenderebbero simultaneamente servendosi dell’intelletto agente in qualità di forma propria […]. Così dunque due soggetti intelligenti avrebbero l’identica intellezione. Il che è impossibile. E non è l’unica affermazione irragionevole.
(III, 43) In questa vita non possiamo intendere le sostanze separate come propone Averroè
[n. 5] È infatti diverso il rapporto dell’intelletto agente con i dati speculativi che esso produce e con le sostanze separate che esso non produce, ma soltanto conosce. Quindi, per il fatto che produce in noi i primi dati di ordine speculativo, non consegue che si unisca a noi in quanto ha la funzione di conoscere le sostanze separate come vuole Averroè: in tale argomentazione si riscontra manifestamente il sofisma della fallacia di accidente.
(III, 44) L’ultima felicità umana non si trova nella conoscenza delle sostanze separate supposta da tali opinioni
[n. 1]. Quanto è indirizzato a un fine che non può conseguire è vano. Ora, siccome il fine dell’uomo è la felicità verso la quale tende il suo desiderio naturale, non si può riporre la felicità umana in qualcosa che l’uomo non può raggiungere: altrimenti ne verrebbe che l’uomo è un essere vano e il suo desiderio naturale sarebbe vano, il che è impossibile. D’altra parte, che non sia possibile per l’uomo conoscere le sostanze separate secondo le opinioni suddette, è manifesto in base a quanto sin qui detto. Perciò vale il titolo. [n. 3]. Posto che la saldatura suddetta dell’intelletto agente con l’uomo fosse possibile come essi ce la descrivono, è evidente che tale perfezione interessa pochissimi uomini […]. Ora, la felicità è un bene universale e comune che i più possono raggiungere se non sono menomati, come dice Aristotele [1 Et., c. 9, n. 4]. Quindi …
(III, 45) In questa vita non possiamo intendere le sostanze separate
Aristotele [3 De an., c. 5, n. 1] dice che l’intelletto possibile è la «capacità di diventare tutte le cose», mentre l’intelletto agente è la «capacità di far diventare tutte le cose», per far capire che entrambe le potenze, quella attiva e quella passiva, si riferiscono ai medesimi oggetti. Perciò, siccome a essere rese intelligibili in atto dall’intelletto agente non sono le sostanze separate, ma le sole realtà materiali, ne viene che l’intelletto possibile abbraccia solo queste ultime. Se però l’intelletto possibile, pur essendo unito al corpo, è tuttavia incorruttibile e indipendente nella sua esistenza dalla materia, come sopra abbiamo dimostrato [II, cc. 79 ss.], ne segue che la sua limitazione a intendere le realtà materiali è condizionata dalla sua unione con il corpo. Perciò, quando l’anima sarà separata dal corpo, l’intelletto possibile potrà intendere gli esseri per se stessi intelligibili, cioè le sostanze separate, mediante la luce dell’intelletto agente, che è una somiglianza nell’anima della luce intellettiva esistente nelle sostanze separate. E questa è la sentenza della nostra fede sulla conoscenza delle sostanze separate che avremo dopo la morte, e non in questa vita.
(III, 46) In questa vita l’anima non può conoscere se stessa mediante se stessa
Se l’anima conoscesse mediante se stessa la propria essenza o quiddità, avendo ciascun uomo un’anima, ognuno dovrebbe avere di essa una conoscenza quidditativa, il che è evidentemente falso. Se avessimo la conoscenza immediata della natura dell’anima, sarebbe una conoscenza naturale. Ora, nelle cose conosciute naturalmente nessuno può sbagliare […]. Quindi riguardo all’essenza dell’anima nessuno sbaglierebbe, il che è manifestamente falso, data la molteplicità di opinioni diverse su tale argomento.