LEGGE, precetti (3, 116-129)

(III, 116) Il fine della legge divina è l’amore di Dio

L’uomo vuole di più ciò che vuole per amore che non ciò che vuole solo per timore, poiché ciò che vuole solo per timore è mescolato con qualcosa di involontario: come quando uno per timore vuole gettare le merci in mare. Dunque l’amore del sommo bene, cioè di Dio, rende buoni in sommo grado, e quindi è sommamente inteso nella legge divina. La bontà dell’uomo dipende dalla virtù, poiché è la virtù «che rende buono chi la possiede». Perciò la legge tende a rendere gli uomini virtuosi, e i precetti della legge riguardano gli atti delle virtù; e tra le condizioni delle virtù c’è che il virtuoso «agisca con fermezza e con diletto». Ora, è l’amore principalmente a fare questo, poiché è per amore che facciamo qualcosa con fermezza e con diletto. Dunque l’amore del bene è l’ultimo intento della legge divina. Di qui quanto si dice in 1Tm 1,5: «Il fine del precetto è la carità»; e in Mt 22, 38: «Il primo e il massimo dei comandamenti è questo: Amerai il Signore Dio tuo». Da ciò deriva anche il fatto che la legge nuova, in quanto più perfetta, è detta «legge dell’amore», e la legge antica, in quanto più imperfetta, «legge del timore».

(III, 117) Con la legge divina siamo ordinati [anche] all’amore del prossimo

Tra coloro che hanno un unico fine ci deve essere un’unione di affetto. Ora, gli uomini hanno in comune l’ultimo fine della beatitudine, al quale sono ordinati da Dio. Dunque è necessario che gli uomini siano uniti fra loro dall’amore vicendevole. Essendo l’uomo «per natura un animale socievole» [Et. 1, c. 5], necessita dell’aiuto di altri uomini per raggiungere il proprio fine. Ora, ciò avviene nel modo più conveniente mediante l’amore reciproco. Quindi … Di qui Gv 15,12: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri»; e 1 Gv 4,21: «Questo comando abbiamo ricevuto da Dio: che chi ama Dio ami anche il proprio fratello»; e ancora Mt 22,39: «Il secondo comandamento è: Amerai il tuo prossimo».

(III, 118) La legge divina obbliga gli uomini alla vera fede

L’inizio dell’amore spirituale deve essere la visione intelligibile dell’oggetto amabile spirituale. Ora, nella vita presente, la visione di quell’oggetto amabile spirituale che è Dio, non si può avere se non mediante la fede. Dunque è necessario che dalla legge divina siamo indotti alla vera fede. Un’opinione falsa nel campo intellettuale corrisponde al vizio, contrapposto alla virtù, nel campo morale, poiché «il vero è il bene dell’intelletto» [Et. 6, c. 2, n. 3]. Ora, alla legge divina spetta proibire i vizi. Dunque spetta ad essa anche escludere le false opinioni su Dio e sulle cose di Dio. Di qui le parole di Eb 11,6: «Senza la fede è impossibile piacere a Dio». E nell’Esodo (20,2) prima degli altri precetti della legge, si prescrive la retta fede in Dio: «Ascolta, Israele: il Signore Dio tuo è uno solo». Viene così confutato l’errore di certuni secondo i quali per la salvezza dell’uomo non conta quale sia la fede con cui egli serve Dio.

(III, 119) La mente umana è guidata verso Dio da certe realtà sensibili

Essendo naturale per l’uomo ricavare la conoscenza dai sensi, ed essendo per lui molto difficile trascendere le realtà sensibili, Dio ha provveduto in modo che egli ricevesse un richiamo alle cose divine da quelle sensibili, affinché con esse fosse riportata alle cose di Dio anche l’attenzione di quegli uomini la cui intelligenza non è capace di contemplare le cose di Dio in se stesse. Perciò furono istituiti dei sacrifici sensibili […], applicate delle consacrazioni mediante realtà sensibili […], compiute azioni sensibili come prostrazioni, genuflessioni, canti ecc. Nel prestare questi atti corporali consiste il culto di Dio. Questo culto di Dio viene chiamato anche religione, poiché con tali atti l’uomo si lega in modo da non scostarsi da lui. E anche perché si sente obbligato da un istinto naturale a prestare a suo modo riverenza a Dio, da cui viene il principio del suo essere e di ogni bene. In base a ciò la religione prende anche il nome di pietà, poiché la pietà è la virtù con la quale rendiamo l’onore dovuto ai nostri genitori. E per questo quanti sono contrari alle cose riguardanti il culto di Dio li chiamiamo empi. Ciò che poi facciamo in onore di Dio lo denominiamo servizio. Però il servizio a lui dovuto è diverso da quello dovuto a un uomo a cui accidentalmente apparteniamo, e che ha un certo particolare dominio sulle cose, derivato da Dio. Perciò il servizio che dobbiamo a Dio, specialmente fra in Greci, è chiamato latria.

(III, 120) Il culto di latria va prestato soltanto a Dio

Sopra [II, c. 21] abbiamo visto che solo Dio è creatore. Dunque l’uomo deve rendere a Dio qualcosa di speciale come riconoscimento di un beneficio speciale. E questo qualcosa è il culto di latria. Fra tutti gli atti del culto di latria, il più singolare è il sacrificio […], che mai nessuno ha pensato di offrire a qualcuno se non perché lo riteneva Dio, o fingeva di crederlo tale […]. Perciò l’uomo deve offrire il sacrificio e il culto di latria soltanto a Dio, e non già ad altri esseri, per quanto spirituali essi siano. Da ciò Es 22,20: «Chi offre sacrifici ad altri dei, fuorché a Dio solo, sarà ucciso»; Dt 6,13: «Adorerai il Signore Dio tuo, e servirai a lui solo»; Rm 1,23: «Affermando di essere sapienti, divennero stolti, e scambiarono la gloria dell’incorruttibile Dio con un’immagine e una figura di uomo corruttibile …», e sotto, v. 25: «scambiando la verità di Dio con la menzogna, e adorando e servendo le creature anziché il Creatore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen».

(III, 121) La legge divina ordina l’uomo secondo ragione anche riguardo alle realtà corporali e sensibili

Come l’anima umana è subordinata a Dio, così il corpo è subordinato all’anima e le potenze inferiori alla ragione. Ora, far sì che tutte le cose rispettino il loro ordine appartiene alla divina provvidenza, la cui norma proposta all’uomo da Dio è la legge divina. Perciò l’uomo deve essere ordinato attraverso la legge divina in modo che le potenze inferiori siano soggette alla ragione, il corpo all’anima e i beni esterni alle necessità dell’uomo. Qualsiasi legge giusta induce alla virtù. Ora, la virtù ha il compito di far sì che tanto i sentimenti interiori quanto l’uso delle realtà temporali siano regolati secondo la ragione. Quindi ciò va stabilito nella legge divina. Così viene confutato l’errore di certuni secondo i quali c’è peccato solo quando si offende o si scandalizza il prossimo.

(III, 122) Per quale ragione la fornicazione semplice secondo la legge divina è un peccato, e il matrimonio [invece] è secondo natura

Alcuni dicono: Supponiamo che esista una donna non maritata, ed emancipata dalla tutela del padre o di qualsiasi altro. Se uno si accoppia con lei con il suo consenso, non fa ingiustizia a lei poiché essa lo vuole e ha potestà sul proprio corpo, e non fa ingiustizia ad altri, poiché non è sotto il dominio di nessuno. E così questa fornicazione semplice [come viene denominata, N. d. R.], sembra che non sia un peccato. Si risponde così. L’emissione volontaria del seme umano è ordinata alla generazione. La generazione a sua volta comporta l’educazione della prole, e questa richiede l’unione [indissolubile] dei due genitori. [Questa è in sostanza la risposta ai due quesiti posti nel titolo, N. d. R.].

(III, 123) Il matrimonio deve essere indissolubile

Se uno che si unisce a una donna nel tempo della giovinezza, quando essa presenta bellezza e fecondità, potesse lasciarla in seguito quando è invecchiata, farebbe un torto alla donna, contro l’equità naturale. – Se il marito potesse abbandonare la moglie, non si avrebbe tra l’uomo e la donna una società tra uguali, ma una schiavitù della donna. L’amicizia, quanto più è grande, tanto più è ferma e duratura. Ora, tra marito e moglie, c’è un’amicizia grandissima, per la comunanza di tutta la vita domestica; e ne è un segno il fatto che il marito per la moglie «lascia anche il padre e la madre», come è detto in Gen 2,24. È quindi giusto che il matrimonio sia del tutto indissolubile. Di qui Mt 5,32 e 19,6; 1Cor 7,10: «Ai coniugati poi ordino, non io ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito».

(III, 124) Il matrimonio deve essere tra un solo uomo e una sola donna

Un’amicizia intensa non si può avere verso molte persone, come spiega il Filosofo [Et 8, c. 6, n. 2]. Se quindi la moglie avesse un unico marito e il marito avesse più mogli, l’amicizia non sarebbe uguale da entrambe le parti. E così non si avrebbe un’amicizia liberale, ma quasi servile. Tra gli uomini, come si è detto [c. prec.], il matrimonio deve essere regolato secondo i buoni costumi. Ora, è contro i buoni costumi che uno abbia più mogli, poiché da ciò segue la discordia domestica, come è provato dall’esperienza. Quindi non è giusto che un uomo abbia più mogli. Da qui Gen 2,24: «Saranno due in una carne sola».

(III, 125) Il matrimonio non va fatto tra congiunti 

Nel matrimonio, essendoci l’unione tra persone diverse, è giusto che vengano escluse quelle persone che devono considerarsi già unite per l’identità di origine, poiché, riconoscendo che sono una cosa sola soltanto a motivo del matrimonio, si amino più intensamente. Poiché gli atti matrimoniali presentano una certa naturale indecenza, si deve proibire che li esercitino tra loro quelle persone alle quali è dovuto rispetto per i vincoli di sangue. E questa sembra essere la ragione invocata dall’antica legge, laddove, tra l’altro, si dice [Lv 18,6 ss.]: «Non scoprirai le vergogne di tua sorella»; «Nessuno si unisca con una donna sua consanguinea».

(III, 126) Il rapporto sessuale non è sempre peccato

È secondo ragione che uno abbia un rapporto sessuale come si addice alla generazione e all’educazione della prole. La conservazione della specie non è possibile negli animali se non mediante la generazione, che avviene con il rapporto sessuale. Quindi è impossibile che il rapporto sessuale sia per se stesso cattivo. Di qui 1 Cor 7,28: «Se la donna si sposa, non fa peccato».

(III, 127) Non esiste nessun cibo il cui uso sia in se stesso peccato

Qualsiasi cibo che è in grado di nutrire può essere preso senza peccato. Quindi di per sé il suo ingerimento non è peccato. Può esserlo soltanto se è preso in modo irragionevole. Le piante sono fatte per gli animali; certi animali sono fatti per altri animali, e tutti questi esseri sono fatti per l’uomo, come abbiamo visto [c. 22]. Perciò servirsi come cibo, o per altri scopi utili all’uomo, sia delle piante, sia delle carni degli animali, di per sé non è peccato.

(III, 128) La legge di Dio regola i rapporti dell’uomo con il prossimo

Essendo l’uomo per natura un «animale socievole» [Et. 1, c. 7, n. 6], è necessario che venga indirizzato dalla legge divina a comportarsi secondo l’ordine della ragione con gli altri uomini. Ogni volta che degli esseri sono ordinati sotto qualcuno, devono essere coordinati fra di loro, altrimenti si ostacolerebbero a vicenda nel conseguimento del fine comune. Ora, ciò significa avere la pace reciproca, essendo la pace una «concordia ordinata». Da qui Is 32,17: «Opera della giustizia è la pace». Era quindi necessario che dalla legge divina venissero dati i precetti relativi alla giustizia, in modo che ognuno rendesse all’altro ciò che è suo, e si astenesse dal nuocergli. L’adempimento totale della legge dipende poi dall’amore, Rm 13,10: «La pienezza della legge è l’amore». E il Signore afferma [Mt 22,40] che «in questi due precetti», dell’amore di Dio e del prossimo, «è compresa tutta la legge». Riguardo all’adempimento della legge leggiamo poi ancora [1Tm 1,9] che «la legge non è fatta per il giusto, ma per gli ingiusti». Ciò non va inteso nel senso che i giusti non sarebbero tenuti a osservare la legge, come intesero falsamente alcuni, ma nel senso che i giusti tendono per se stessi a rispettare la giustizia, anche senza la legge.

(III, 129) La rettitudine di alcuni atti umani dipende dalla loro natura, e non soltanto dalla legge positiva

Gli uomini ricevono dalla divina provvidenza il criterio naturale della ragione quale norma delle proprie azioni. Ora, i principi naturali sono ordinati a cose secondo natura. Dunque ci sono delle azioni che si addicono all’uomo per natura, e sono rette per se stesse, e non solo perché sono comandate dalla legge positiva. Tutto ciò che ha una natura determinata deve avere determinati atti che si addicono a questa natura, poiché l’atto proprio di ciascun essere deriva dalla sua natura. Ora, è chiaro che l’uomo ha una natura determinata. Quindi è necessario che ci siano delle azioni che si addicono all’uomo per se stesso. E così nei Salmi 18,10 si legge: «I giudizi del Signore sono veri, e giusti in se stessi».

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